La serie degli omicidi razziali della polizia americana si allunga: in pochi mesi, Treyvor Martin, Michael Brown, Eric Garner, Antonio Martin, David Scott. In questa settimana, il senza casa dal simbolico soprannome di «Africa» a Los Angeles; e Anthony Robinson, 19 anni, a Madison, Wisconsin, nel giorno simbolico del cinquantenario della manifestazione per i diritti civili a Selma mezzo secolo fa (e della sua violenta repressione da parte della polizia).

E non sono tutti: nel 2014 le persone uccise dalla polizia sono oltre 600, di tutti i colori ma soprattutto nere e latine.

La geografia di questi omicidi compre l’intero territorio degli Stati Uniti: Florida, New York, Missouri, California, Wisconsin, da sud a nord, da est a ovest. Come dire che il problema non è Selma del 1965 ma l’America intera del 2015. Ha ragione Barak Obama: Selma è adesso, ha detto, ed è dappertutto.

Di che è fatto il razzismo che alimenta questa serie di crimini? In primo luogo, il disprezzo: le vite degli afroamericani contano meno («black lives matter» è stata la parola d’ordine delle proteste negli ultimi mesi).

L’impunità e lo spirito di corpo: nessun poliziotto ha perso il posto e tanto meno è andato in carcere per avere ucciso un nero. L’incompetenza: ma è mai possibile che l’unico modo che hanno per controllare persone che reagiscono (o sembra che reagiscano) ai tentativi di arresto sia di ammazzarle? E al tempo stesso, l’addestramento: il racial profiling insegna a vedere in ogni giovane nero un potenziale criminale. Di qui, la paura e la paranoia: in un paese dove tutti sono armati, ci si aspetta che anche i sospettati lo siano, e al primo gesto si risponde, come nel mitico West, sparando per primi – anche ai disarmati.

Un tempo dicevamo che l’America è il gendarme del mondo. Nelle periferie di St. Louis e di Madison i gendarmi americani si comportano come il loro paese, intrecciando la paura del terrorismo col senso della propria onnipotenza, si è comportato in Irak e in Afghanistan dopo l’11 settembre (immaginandosi armi di distruzione di massa dove non ce n’erano, come i poliziotti di Harlem e Jacksonville hanno scambiato oggetti innocui per pistole).

Il 28 dicembre 2014 a Jacksonville in Florida David Scott è ucciso da una squadra speciale di polizia. L’ufficio dello sceriffo spiega: «Hanno visto che aveva in mano un oggetto che sembrava una pistola, lo puntava come se fosse una pistola, e gli hanno sparato 21 volte al torso, alle braccia e alle gambe». L’oggetto che aveva in mano, che ha indotto gli agenti a un panico omicida, era una scatola avvolta in un calzino.

Nel 1999, a Harlem, Amadou Diallo è stato crivellato con 41 colpi di pistola perché i poliziotti avevano scambiato il suo portafogli per una pistola.

E poi c’è la politica. E vero che Selma non è mezzo secolo fa, ma oggi. Da una parte, senza Selma non ci sarebbe Obama: sono i diritti civili strappati dopo quella lotta che hanno reso possibile l’elezione di un presidente nero.

Ma è proprio l’elezione di un presidente nero che incita la destra a rimettere in discussione quei diritti perché è il segnale che tanti spazi e privilegi riservati ai banchi non sono più protetti come un tempo. Anche perché da Selma e da Obama, gli afroamericani hanno tratto lì incitamento a far valere i loro diritti di cittadini americani, e in questo modo ne trasformano il senso.

Diceva Bruce Springsteen: ti possono ammazzare solo perché sei vivo nella tua pelle americana. Altrove ti possono ammazzare perché sei vivo e basta. Ho cominciato elencando i nomi delle vittime afroamericane negli Stati Uniti. Potremmo fare una lista anche noi: Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri…Abbiamo una forza politica nazionale in ascesa che invita tutti a proteggersi da neri e immigrati sparando e uccidendo. Stiamoci attenti.